Genova, fine anni Ottanta. Via Balbi, quella dell'Università. Cielo terso e taxi con le sirene. Un certo bar. All'ora del Martini, da qualche giorno mi gira intorno un uomo sui trent'anni. Bello, di bellezza romantica secondo la giovane infermiera che sarebbe diventata mia moglie per qualche anno. Siamo soli (forse è troppo presto, forse è troppo tardi). Mi domanda un gettone telefonico e una sigaretta. "Grazie, lei lavora in Università?". Una collaborazione", rispondo. Porta una mano ai capelli, accende la sigaretta e mi racconta qualcosa per un tempo che ora non so dire ma verosimilmente lungo...
Vado in studio e cerco tra le mie Moleskine. Da qualche parte deve essere...
Ecco, è su quella del Duemila.
Sono qui per la cocaina,
sono dentro – in galera.
E’ che non l’ho mai usata,
mai condivisa.
E neppure mai
ho pensato che potesse
essere altra poesia,
la sola, per altri soli.
Ma sono qui
e ora penso così
perché agrodolce è la memoria:
sere d’inferno
quelle con mamma vedova – per impiccagione,
con grida e non miei ragionamenti;
la gatta che vecchia pisciava
tutto il poco che abitavo,
e mamma che saliva a pulire.
E anche pensavo di fare un bel mestiere,
di insegnare bene – e anche buono.
E forse è vero.
Ma il solo bene che sento
è tutto il poco che abitavo
e le grida di mamma
che era il tiro straziante
dei palamiti
come tutta la vita – niente, ma non è poco
incagliata tra chissà cosa
che si sa,
perché il mare
ha piaghe sane e trasparenti.
La storia la trascrissi così, in linee; solo perché molte cose mi restano, da quando ho memoria, per la musica che le porta.
Io che non ho neppure i due accordi di chitarra.
Che questa sera abbia acceso pure lui la partita...